La lettera scarlatta

C’è una parolina che inizia per “A” che incute orrore e raccapriccio nel cuore di ogni editore benpensante: Autopubblicazione. Che fa rima con autoproduzione e, per far di tutta l’erba un fascio, con editoria a pagamento.

La lettera scarlatta.

Per prima cosa, distinguiamo.

Un autore autoprodotto o autopubblicato (scusate, se esiste una differenza tra le due cose mi sfugge) è un autore che decide di pubblicare in proprio la sua opera, investendo risorse e tempo in un progetto semplicemente perché ci crede. Che questo “crederci” sia poi basato sulla capacità di riconoscere il valore effettivo della propria opera o semplicemente nel ritenerla valida è tutt’altra cosa e ne parleremo più avanti. Fatto sta che tale atto, per alcuni scandaloso, bypassa completamente l’editoria tradizionale, in altre parole l’autore prende in mano le redini della carrozza e si lancia nel mercato per conto proprio, attraverso servizi di stampa (es. Youcanprint, Lulu, ilmiolibro.it ecc.) e/o canali di distribuzione per ebook (Narcissus, Amazon, Kobo ecc.). Ovviamente ciò implica rinunciare al supporto offerto da un editore, non soltanto in fatto di editing ma soprattutto nella distribuzione e nella promozione che sono le due cose più pesanti da affrontare per un autore che può contare sulle sue sole forze, per tacere dell’elementare prestigio di immagine che deriva dal pubblicare con un’impresa riconosciuta che ha “selezionato” la tua opera tra decine di altre. L’autore self quindi intraprende questa strada a suo rischio e pericolo e con poche speranze di vero successo. Ciò può accadere per una serie di ragioni:

  • Grande o eccessiva fiducia nel proprio lavoro
  • Voler gestire il proprio progetto in modo autonomo, senza condizionamenti o scadenze
  • Desiderio di mantenere i pieni diritti sull’opera
  • Desiderio di promuoversi a proprio piacimento
  • Speranza di un ritorno economico maggiore rispetto a pubblicare, magari, con un piccolo editore
  • Una serie di rifiuti da parte degli editori
  • Disinteresse o sfiducia verso l’editoria ufficiale (talvolta fondata)
  • Modestia/timidezza nel sottoporre il proprio lavoro a una valutazione professionale
  • Timore di essere truffati dall’editore o di vedere la propria opera rubata
  • Timore di vedere il proprio testo alterato profondamente per esigenze commerciali, o editato in modo scadente
  • Mostrare ai potenziali editori il proprio progetto in una forma più completa (che può anche rivelarsi controproducente)
  • Incapacità di collocare il proprio titolo in un genere o in determinati canoni che suscitino effettivo interesse da parte di un editore – in altre parole, il titolo è ben confezionato ma “rischioso” o inadatto al mercato
  • Incapacità di riconoscere i difetti della propria opera e volerla pubblicare a tutti i costi per puro narcisismo
  • Un semplice bisogno di vedere il proprio lavoro concretizzato

Da notare che in questo elenco non ho messo “scarsa qualità dell’opera” perché non si tratta di un fattore oggettivo legato al selfpublishing, anzi, ultimamente sono sempre più spesso gli editori grandi a toppare sul fattore qualità, mentre il selfpublishing, pur con i molti titoli mediocri o non raffinati che propone, riesce talvolta a offrire delle vere e proprie perle. Va da sé che chi, ispirato da sporadici casi di successo, intraprende l’autopubblicazione sperando di trasformare il suo romanzo nel nuovo bestseller, difficilmente riuscirà a sfondare; tuttavia anche con l’autopubblicazione si possono ottenere dei buoni risultati che, occasionalmente, portano il proprio libro a elevarsi sulla massa.

Cosa ben diversa è il meccanismo perverso dell’editoria a pagamento, in cui un autore finisce nelle maglie di cialtroni senza scrupoli che si vestono dell’autorità di editori quando in realtà non sono altro che stampatori mascherati da imprese serie. Lo scopo di questi… chiamiamoli gruppi editoriali, è solo lucrare sul desiderio di pubblicare degli esordienti. L’editore a pagamento è un controsenso vivente: si fa pagare per pubblicare, o meglio stampare, il tuo libro, un testo per cui in realtà non ha alcun interesse e non ha intenzione di promuovere. Pubblicare un libro con un EAP significa purtroppo bruciarlo: il libro sarà nelle mani dell’autore, ma solo nelle sue, e non potrà mai interessare a un editore serio che lo vedrà come un titolo ormai “perso”. Peggio ancora, all’autore che sconsideratamente ha pubblicato il suo titolo con un EAP verrà affibbiata una cattiva reputazione che potrebbe danneggiarlo nel momento in cui si proponesse con un nuovo titolo. Anni di lavoro e sogni nel cassetto gettati ai maiali.

Perciò perché si pubblica con un editore a pagamento? Secondo me solo per dabbenaggine, o come accade ai più, per semplice mancanza di consapevolezza di cosa si sta facendo. Infatti chi si autopubblica senza essere mai stato prima sulla piazza, non è necessariamente idiota o narcisista, ma non è detto nemmeno che abbia presente come funziona il mercato, cos’è un autore professionista e che differenza c’è tra editoria tradizionale ed editoria a pagamento. Nei primi tempi in cui cercavo di pubblicare Darkwing anch’io ho inviato il mio manoscritto a un editore a pagamento, sedotto da una pubblicità ingannevole; non l’ho pubblicato con loro perché mi hanno chiesto 3.000 Euro e sono stato messo sull’avviso da degli amici, ma prima di allora non avevo nemmeno la percezione che esistesse questo problema – pur pubblicando fumetti già da qualche anno! E parlando con persone che hanno pubblicato con un EAP mi rendo conto che nessuno di loro ha la minima idea di aver commesso un errore, o comunque non ne realizzano le implicazioni. Semplicemente sono stati raggirati da qualcuno che gli ha detto che il loro testo andava pubblicato solo per mettersi in tasca dei soldi. Non me la sento di discriminare queste persone come se avessero fatto un affronto a qualcuno. A chi si è approfittato di loro, invece, sputerei volentieri in un occhio.

© writersdream.org

Editoria a Pagamento? Occhio.

Personalmente quindi credo sia sbagliato trattare chi ha pubblicato per conto suo come se portasse una lettera scarlatta, un marchio d’infamia. E non parlo solo del selfpublisher, che merita rispetto per quello che mette di suo, ma anche dell’autore che ha pubblicato a pagamento ed è in fondo egli stesso una vittima, un po’ della sua ingenuità o presunzione, un po’ della furberia di certa gente che sarebbe meglio se non ci fosse. Val bene il detto, in questo caso, “meglio soli che male accompagnati”.

A chi denigra l’autopubblicazione vorrei ricordare anche che per l’autore self, pubblicare il proprio manoscritto diventa un’opera titanica, in cui saper scrivere un buon libro è il meno. Bisogna improvvisarsi editor, grafici, magari illustratori o spendere per commissionare una copertina, poi promoter, esperti di marketing, investire tempo nel costruire relazioni e coltivarle, girare librerie e fiere per far conoscere il proprio libro. Onestamente non vedo come si possa non rispettare chi, pur privo di grandi mezzi, si rimbocca le maniche e si lancia coraggiosamente in un’impresa simile, quando invece ammiriamo l’imprenditore che mette su un’azienda e la porta avanti, magari senza avere precedente esperienza in quel settore. Immaginate che quell’imprenditore svolga, da solo, le mansioni di direttore, manovale, trasportatore, venditore al dettaglio, promoter, creativo, contabile e si becchi pure degli insulti da una multinazionale che per fare ognuna di queste cose ha a disposizione un reparto intero. E il selfpublisher è quello presuntuoso? “Ma mi facci il piacere!”, diceva Totò!

La tesi di certi editori per dimostrare l’incongruità del selfpublishing, a questo punto, è la seguente: “Noi selezioniamo accuratamente i nostri titoli, li editiamo e presentiamo testi di qualità. Nel selfpublishing invece non c’è filtro, chiunque può improvvisarsi autore. Il selfpublishing abbassa la qualità del mercato con una quantità di titoli mediocri.”

Ciò non toglie che i testi pubblicati da editori giganteschi riescano comunque a fare schifo, a essere pieni di refusi e a proporre autori del tutto mediocri. Volete un piccolo esempio? Vi rimando a questo articolo sul blog di Lorena Laurenti in merito all’editing svolto da Mondadori su Shadowhunter – Città di Ossa.

Certo, non è che il selfpublishing sia il giardino delle primizie! E’ più simile a un mercatino dove si trova di tutto, dalla patacca all’occasione alla rarità. Non nego assolutamente che tra i self ci siano autori che vogliono definirsi scrittori e magari commettono errori elementari di grammatica o non possiedono gli strumenti per scrivere un romanzo. Quelli dotati di vera tecnica sono pochissimi. Eppure nell’ultimo anno ho avuto l’onore di conoscere autori autopubblicati, magari modestissimi, che mangiano in testa a certi scrittori fantasy tanto incensati e pubblicati da fior fiore di case editrici. Gente come una Chiara Piunno o una Mara Fontana le scambierei con la maggior parte di quello che trovo in libreria in qualsiasi momento. E tuttavia, mi capita di visitare siti di editori che arrogantemente sentenziano: “Se il vostro testo è presente su un circuito di selfpublishing, per noi è un libro morto, e non proponeteci nulla neanche in futuro perché ormai avete la reputazione di autori self, perciò non vi pubblicheremo”. Più chiaro di così.

La’! Una bella marchiatura a vita!

Un’ulteriore prova a sfavore della tesi selfpublishing = immondizia è che ultimamente questo mondo ha iniziato a crearsi in modo autonomo forme di controllo qualitativo. Penso ad esempio all’iniziativa Selected Selfpublishing che edita e assegna una valutazione ai titoli autoprodotti che vengono loro sottoposti, in modo serio e professionale – sicuramente molto di più del trattamento che un autore riceverebbe da un qualsiasi editore a pagamento. Dopo l’inevitabile carica dei dilettanti allo sbaraglio, preso atto delle sensate critiche rivolte al fenomeno dall’editoria ufficiale, la situazione magmatica del selfpublishing cerca quindi di darsi un’autoregolamentazione, e i promotori di questo cambiamento sono proprio quegli autori che, riconoscendo la validità di un processo di selezione, non vogliono essere accomunati a chi si rivolge all’editoria fai da te per puro autocompiacimento.

Ci sono anche, poi, gli autori affermati che guardano al selfpublishing, come ad esempio Giorgio Pezzin, noto sceneggiatore Disney che con il suo sito http://www.fumettiestorie.com/ propone autori e iniziative legate a questo settore. O autori self che sono arrivati a pubblicare perché qualche casa editrice di buonsenso, invece di pensare solo a bollarli come cause perse, ha messo a frutto il loro talento (penso ad esempio a Stefano Lanciotti che ora pubblica con Newton Compton). Prodotti tutt’altro che poveri, quindi, e che anzi insistono sul fattore qualità più di quanto facciano certi editori che si definiscono migliori solo perché “loro sono editori”.

Ecco quindi che basta guardare oltre la copertina (nemmeno oltre quella, a volte) per accorgerci che “qualità” e “pubblicazione” sono due elementi non necessariamente correlati. Se l’editore svolge il suo lavoro seriamente allora posso credere a questa tesi, altrimenti si rivela per quello che è: un’affermazione pretestuosa che serve solo a tagliare le gambe ai piccoli, dato che il self fatto bene gli fa concorrenza.

Ci tengo a sottolineare che questo mio articolo non si propone di attaccare un editore, un autore o un’opera in particolare, ma piuttosto di affrontare un’idea retrograda, un pregiudizio tenuto in piedi ad unico beneficio di una casta che non vuole perdere il controllo esclusivo di un settore e che, spesso incapace di dimostrarsi all’altezza del ruolo che si attribuisce, cerca di oscurare il lavoro di autori coraggiosi solo perché li imbarazza che alcuni riescano da soli a pubblicare libri migliori delle loro schifezze. E che succede se poi la gente se ne accorge?!

Io preferisco pensare che il selfpublishing rappresenti iniziativa, energia creativa, voglia di fare, e di queste forze ho rispetto. Poi, è chiaro che non tutti hanno le stesse possibilità, ma non per questo guarderò mai all’autore autoprodotto come se fosse inferiore solo perché ha fatto da sé. Del resto, io ho iniziato in questo modo, e di quella piccola lettera scarlatta che mi porto appresso ne vado molto fiero.

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8 risposte a La lettera scarlatta

  1. http://www.serenamariabarbacetto.wordpress.com ha detto:

    L’ha ribloggato su Through the Wormholee ha commentato:
    Ho sempre pubblicato i miei testi tramite editori, ma l’articolo mi sembra ragionevole ed equilibrato.

    • Silverware ha detto:

      In linea di massima anch’io preferisco avere un editore, ma ho un rispetto profondo verso la scelta del selfpublishing che a seconda dei casi può anche rivelarsi migliore. Secondo me l’importante è mettere il massimo della cura nel prodotto finito. Comunque grazie per il reblog!

  2. P.Marina ha detto:

    Complimenti per l’articolo! Hai affrontato l’argomento con grande “padronanza della penna (o della tastiera)”. Condivido tutto, sia da autrice Self e sia da Blogger perché veramente, con quest’ultima attività, mi sta capitando di ascoltare le “Storie editoriali più brutte del mondo”. Questa frase è una delle migliori: “Onestamente non vedo come si possa non rispettare chi, pur privo di grandi mezzi, si rimbocca le maniche e si lancia coraggiosamente in un’impresa simile..:”

  3. iuccy ha detto:

    Direi che – sommando le esperienze dei colleghi con la mia – approvo ogni singola affermazione. Analisi ben costruita e ponderata.

  4. Lorena ha detto:

    Ottimo articolo, complimenti 🙂

  5. Annarita Faggioni ha detto:

    Il self-publishing può dare tantissime soddisfazioni, proprio perché è l’autore a seguire tutta la filiera dalla copertina al testo finito. Purtroppo, pochi capiscono questa responsabilità, dando in pasto alle piattaforme testi scritti male e dando così ragione alle EAP. E’ importante che il self-publisher comprenda il suo potenziale e che spenda un po’ di più in alcuni servizi (come l’editing) per non fare figuracce con i lettori. Ne ho parlato anch’io in un post: spero possa aiutare nella discussione http://ilpiacerediscrivere.it/self-publishing-non-e-eap/.

  6. Giorgio Pezzin ha detto:

    Ciao Davide. Grazie per la citazione.
    La frase che riferisci: “Se il vostro testo è presente su un circuito di selfpublishing, per noi è un libro morto, e non proponeteci nulla neanche in futuro perché ormai avete la reputazione di autori self, perciò non vi pubblicheremo” si può benissimo ribaltare: “Siccome siamo noi gli autori, quelli che FANNO l’opera, visto che sul vostro sito è scritta questa cazzata, per noi siete editori morti, non vi daremo mai nulla da pubblicare per cui i vostri libri d’ora in poi fateveli da soli”.
    Ciò detto, va ricordato che molti grandi autori si sono autopubblicati, come riporta questo articolo del Corriere :http://criticalmastra.corriere.it/2013/07/07/whitman-co-grande-letteratura-self-published/.
    Parliamo di autori come Proust, Allan Poe e molti altri illustrissimi. Quindi quelli che parlano male del self publishing sono, nella migliore delle ipotesi, dei (malamente) interessati; nella peggiore, semplicemente degli imbecilli.
    Giorgio pezzin

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